Antidepressivi: fine di un mito
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Antidepressivi: fine di un mito
Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org
Campagna sociale nazionale
contro gli abusi nella prescrizione
di psicofarmaci a bambini ed adolescenti
Mal di vivere Si ricomincia (quasi) da zero. Ora che l’efficacia degli
psicofarmaci, in base agli ultimi studi, è stata ridimensionata, quali armi
restano contro questa patologia seria e diffusa? Si punta sugli stili di vita. E
riprende forza la terapia della parola.
«Prozac & C? Inutili come caramelle». Nei giorni scorsi, su quotidiani italiani e stranieri
è stata una raffica di titoli che, con infinite variazioni sul tema, riportavano uno degli
ultimi studi sugli scarsi benefici degli antidepressivi. Sembra un’altra era rispetto a
quando, non più di 15 anni fa, i giornali erano pieni di articoli sulla «felicità in pillole»
e il Prozac, dopo il suo debutto nel 1988, conquistava le copertine delle riviste e
veniva definito la vitamina P: nutrimento per anime con il male di vivere. Che cosa è
successo?
Uno studio è apparso a fine febbraio su Plos Medicine. Sfruttando il Freedom of
information act, che negli Stati Uniti obbliga gli enti pubblici a rendere accessibili le
informazioni su richiesta, ricercatori americani e inglesi hanno ottenuto i dati mai resi
noti degli studi clinici su quattro fra gli antidepressivi di nuova generazione più
prescritti: gli Ssri, o inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina, quelli della
famiglia del Prozac, appunto. La conclusione? Considerando tutti i dati nel complesso,
non solo quelli usciti sulle riviste scientifiche ma anche quelli non pubblicati, questi
farmaci risultano utili quanto una pillola finta. Un altro studio recente sul New England
journal of medicine, anche se con meno scalpore, dava lo stesso verdetto.
L’efficacia apparente di 12 antidepressivi sembra assai maggiore stando agli studi
divulgati, cioè pubblicati sulla letteratura scientifica. Se si aggiungono quelli rimasti
ignoti, la loro utilità appare in una luce assai meno rosea.
È la conferma di qualcosa che svariati esperti sapevano, e di un quadro che si va
definendo con sempre maggior dettaglio. Agli addetti ai lavori è ormai chiaro che,
come spiega Corrado Barbui, psichiatra del Centro di ricerca Oms sulla salute mentale,
«se somministro un antidepressivo a 100 depressi, 53 stanno meglio. Se do un
farmaco finto a stare meglio sono in 42. La differenza è in quelle 10-11 persone». E in
come, con più o meno ottimismo, si vuole interpretare il risultato.
Come appare sempre più evidente, e come risulta anche dallo studio di Plos Medicine,
la differenza tra pillola e placebo vale soprattutto nei casi di depressione grave. Più il
malessere psicologico è lieve, minore, fino a scomparire, è la differenza tra prendere
un farmaco vero e convincersi di averlo preso. Una bella differenza rispetto ai toni
trionfalistici di un decennio fa.
Il vento non è cambiato di colpo, anche se lo scenario si è definito in modo netto di
recente. Un anno e mezzo fa lo studio Star*D, il più vasto finora condotto, su oltre 4
mila pazienti, ha mostrato che collezionando fino a quattro trattamenti diversi (o
aumentando lo stesso farmaco) sei pazienti su dieci escono dalla depressione. Con il
tempo, tuttavia, uno su due ha una ricaduta. La depressione appare sempre più per
ciò che è: una malattia complessa, difficile da trattare, a volte cronica, le cui radici
biologiche non sono del tutto chiare. Il contrario di ciò che certa propaganda sull’uso
dei farmaci ha fatto pensare, arrivando a presentare la depressione come una malattia
diffusissima (alcune stime parlano di una persona su tre) ma per cui esiste cura sicura
ed efficace.
Responsabile in parte di questa visione falsata è la difficoltà, anche per gli specialisti
(e ancor più per i medici di base, i maggiori prescrittori di antidepressivi), di fare una
diagnosi. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali fissa criteri per la
depressione maggiore, la più grave. Il guaio, spiega Mario Maj, presidente della
Società mondiale di psichiatria, è che questi criteri non distinguono fra
demoralizzazione, cioè la tristezza dovuta a circostanze diffficili della vita (un
insuccesso scolastico o di lavoro, una rottura negli affetti, una malattia seria, un lutto,
difficoltà economiche...) e la depressione vera e propria. «Questa confusione che ha
portato all’esplosione dei tassi di depressione nelle indagini epidemiologiche,
all’aumento esponenziale del numero dei casi trattati (più 300 per cento negli Usa tra
il 1987 e il 1997) e alla crescita dell’uso degli antidepressivi, triplicato tra il 1988 e il
2000, con un incremento di sei volte della relativa spesa».
Non a caso si continua a parlare di epidemia (il comunicato stampa di un’industria
produttrice di un nuovo antidepressivo, appena arrivato in redazione, parla di
«patologia negata» e di «zone d’ombra per quanto riguarda l’incidenza nella
popolazione»), quando le indagini epidemiologiche dicono che la diffusione della
depressione maggiore è più o meno costante. Allargando sempre più il potenziale
pubblico dei bisognosi di antidepressivi, si arriva alla conseguenza evidenziata negli
ultimi studi: si fa sempre più ristretta la differenza di efficacia tra farmaci e placebo.
Dice Maj: «Gli antidepressivi sono tanto più efficaci quanto più la malattia è grave. In
genere non hanno effetto sulla demoralizzazione e ne hanno uno modesto sulla
depressione lieve».
A creare un’idea semplificata di che cosa sia la depressione non sono state solo le
difficoltà diagnostiche o altre questioni di natura tecnica. Le aziende produttrici di
antidepressivi hanno perseguito una strategia per allargare sempre più il mercato
delle molecole che uscivano dai loro laboratori, presentandole quasi come pillole
miracolose con scarsi effetti collaterali. E in buona misura ci sono riuscite.
Fra interessi dell’industria e medicina accademica si è formata, accusavava già anni fa
Giovanni Fava, psichiatra e professore di psicologia clinica all’Università di Bologna,
«un’insana alleanza» che ha osteggiato la rappresentazione fedele dei dati; ha favorito
convegni e simposi tenuti allo scopo di convincere i medici a prescrivere; ha avuto i
suoi esperti nelle posizioni chiave in riviste mediche e associazioni scientifiche; ha
messo in disparte chi non condivideva la visione prevalente. Gli antidepressivi che
l’industria doveva vendere sono stati prescritti (e continuano a esserlo) come
trattamento preventivo, o come cura da proseguire a vita. Sebbene niente faccia
pensare che siano effettivamente utili, se non in casi limitati e definiti.
Lo strapotere della pillola ha oscurato per anni un’altra verità: la soluzione chimica,
anche se al momento può aiutare, alla lunga da sola non funziona. Gli stili di vita,
ritenuti cruciali nella cura di molte malattie croniche biologiche, come diabete o
ipertensione, curiosamente sono stati ignorati nel caso della depressione. Invece
contano, e molto.
«Spesso si pensa alla depressione come una malattia che piomba addosso come
l’influenza, ma non è così» afferma Fava. «Senza accorgersene, c’è chi vive in modo
troppo stressante: troppo lavoro, poco sonno, problemi in famiglia... Sul momento
non succede niente, alla lunga però può arrivare la depressione». «Ai pazienti faccio
un esempio: se lei è andato fuori strada, gli antidepressivi la possono riportare in
carreggiata, ma se continua a guidare come prima, fuori strada ci finisce di nuovo»
aggiunge Fava.
C’è da chiedersi cosa non vada nel modo di guidare, e provare a rimettere in moto le
forze di guarigione interne. Qui può entrare in gioco la terapia della parola, grande
assente dal dibattito negli ultimi anni, e che ricomincia a riguadagnare terreno,
sostenuta da nuove prove di efficacia, proprio ora che le pillole ne perdono.
«Secondo gli studi più importanti, la sua efficacia non è inferiore, e forse è superiore,
a quella dei farmaci, soprattutto nelle forme di gravità intermedia. Nel lungo termine
potenzia e consolida l’azione dei farmaci» valuta Angelo Picardi, psichiatra del Centro
di epidemiologia sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di
sanità.
La psicoterapia sembra avere un effetto preventivo sulle ricadute. Lo si è visto quando
si è avuta la pazienza di verificare che cosa succedeva ai depressi non dopo uno, due
o tre mesi dalla cura con i farmaci, ma dopo uno, due, tre anni.
Sembrano funzionare, sottoposte a verifica sperimentale, alcune forme di psicoterapia
breve, come quella cognitivo-comportamentale, quella interpersonale e poche altre. In
una ventina di sedute, il terapeuta lavora con il paziente per insegnargli in modo
concreto, con un diario o con esercizi specifici, a individuare gli stili di pensiero che
favoriscono l’umore nero, e ad adottarne di più positivi. C’è chi ci riesce per carattere
e chi tende a ruminare fissandosi sempre sul peggio.
Il gruppo di Fava ha introdotto il trattamento detto modello sequenziale: farmaci in
fase acuta, seguiti da psicoterapia cognitivo-comportamentale per consolidare il
miglioramento. Metodo adottato in vari paesi perché sostenuto da studi rigorosi. Il
ministro della Salute britannico ha stanziato 170 milioni di sterline per l’introduzione
nel servizio sanitario di psicoterapie cognitivo-comportamentali nella cura della
depressione e altri disturbi ansiosi. Il timore è quello dei costi. «Ma non è che l’uso dei
farmaci venga a costare al servizio sanitario meno di un programma di psicoterapia»
osserva Picardi. Da noi, dove le asl sono organizzate soprattutto per i pazienti
psicotici, i depressi trovano scarsa o nessuna assistenza: pochi posti in ospedale e
pochi ambulatori.
In conclusione, parlando di depressione si ricomincia da zero. «Alla luce delle relative
certezze che abbiamo, sarebbe ora di avvicinarci al problema con studi adeguati, che
diano indicazioni sull’approccio complessivo, farmacologico e non, da adottare»
propone Nicola Magrini, direttore del Centro per la valutazione dell’efficacia
dell’assistenza sanitaria.
«Non ha senso dire “si cura con i farmaci” o “si cura con la psicoterapia”, anzi non ha
neanche più senso parlare di psicoterapia, dal momento che esistono diverse tecniche,
con indicazioni differenti» dice Maj. «La scelta va fatta caso per caso in base alle
caratteristiche del quadro clinico, alle modalità della sua insorgenza, alla storia
precedente di malattia, alla risposta precedente alle cure, alla presenza dei vari fattori
predisponenti e precipitanti (familiarità, eventi precoci di perdita, separazione o
abuso, alcuni stili di funzionamento cognitivo), e inoltre tenendo conto della presenza
di altre malattie».
Tratto da: Panorama
Di: CHIARA PALMERINI
Campagna sociale nazionale
contro gli abusi nella prescrizione
di psicofarmaci a bambini ed adolescenti
Mal di vivere Si ricomincia (quasi) da zero. Ora che l’efficacia degli
psicofarmaci, in base agli ultimi studi, è stata ridimensionata, quali armi
restano contro questa patologia seria e diffusa? Si punta sugli stili di vita. E
riprende forza la terapia della parola.
«Prozac & C? Inutili come caramelle». Nei giorni scorsi, su quotidiani italiani e stranieri
è stata una raffica di titoli che, con infinite variazioni sul tema, riportavano uno degli
ultimi studi sugli scarsi benefici degli antidepressivi. Sembra un’altra era rispetto a
quando, non più di 15 anni fa, i giornali erano pieni di articoli sulla «felicità in pillole»
e il Prozac, dopo il suo debutto nel 1988, conquistava le copertine delle riviste e
veniva definito la vitamina P: nutrimento per anime con il male di vivere. Che cosa è
successo?
Uno studio è apparso a fine febbraio su Plos Medicine. Sfruttando il Freedom of
information act, che negli Stati Uniti obbliga gli enti pubblici a rendere accessibili le
informazioni su richiesta, ricercatori americani e inglesi hanno ottenuto i dati mai resi
noti degli studi clinici su quattro fra gli antidepressivi di nuova generazione più
prescritti: gli Ssri, o inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina, quelli della
famiglia del Prozac, appunto. La conclusione? Considerando tutti i dati nel complesso,
non solo quelli usciti sulle riviste scientifiche ma anche quelli non pubblicati, questi
farmaci risultano utili quanto una pillola finta. Un altro studio recente sul New England
journal of medicine, anche se con meno scalpore, dava lo stesso verdetto.
L’efficacia apparente di 12 antidepressivi sembra assai maggiore stando agli studi
divulgati, cioè pubblicati sulla letteratura scientifica. Se si aggiungono quelli rimasti
ignoti, la loro utilità appare in una luce assai meno rosea.
È la conferma di qualcosa che svariati esperti sapevano, e di un quadro che si va
definendo con sempre maggior dettaglio. Agli addetti ai lavori è ormai chiaro che,
come spiega Corrado Barbui, psichiatra del Centro di ricerca Oms sulla salute mentale,
«se somministro un antidepressivo a 100 depressi, 53 stanno meglio. Se do un
farmaco finto a stare meglio sono in 42. La differenza è in quelle 10-11 persone». E in
come, con più o meno ottimismo, si vuole interpretare il risultato.
Come appare sempre più evidente, e come risulta anche dallo studio di Plos Medicine,
la differenza tra pillola e placebo vale soprattutto nei casi di depressione grave. Più il
malessere psicologico è lieve, minore, fino a scomparire, è la differenza tra prendere
un farmaco vero e convincersi di averlo preso. Una bella differenza rispetto ai toni
trionfalistici di un decennio fa.
Il vento non è cambiato di colpo, anche se lo scenario si è definito in modo netto di
recente. Un anno e mezzo fa lo studio Star*D, il più vasto finora condotto, su oltre 4
mila pazienti, ha mostrato che collezionando fino a quattro trattamenti diversi (o
aumentando lo stesso farmaco) sei pazienti su dieci escono dalla depressione. Con il
tempo, tuttavia, uno su due ha una ricaduta. La depressione appare sempre più per
ciò che è: una malattia complessa, difficile da trattare, a volte cronica, le cui radici
biologiche non sono del tutto chiare. Il contrario di ciò che certa propaganda sull’uso
dei farmaci ha fatto pensare, arrivando a presentare la depressione come una malattia
diffusissima (alcune stime parlano di una persona su tre) ma per cui esiste cura sicura
ed efficace.
Responsabile in parte di questa visione falsata è la difficoltà, anche per gli specialisti
(e ancor più per i medici di base, i maggiori prescrittori di antidepressivi), di fare una
diagnosi. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali fissa criteri per la
depressione maggiore, la più grave. Il guaio, spiega Mario Maj, presidente della
Società mondiale di psichiatria, è che questi criteri non distinguono fra
demoralizzazione, cioè la tristezza dovuta a circostanze diffficili della vita (un
insuccesso scolastico o di lavoro, una rottura negli affetti, una malattia seria, un lutto,
difficoltà economiche...) e la depressione vera e propria. «Questa confusione che ha
portato all’esplosione dei tassi di depressione nelle indagini epidemiologiche,
all’aumento esponenziale del numero dei casi trattati (più 300 per cento negli Usa tra
il 1987 e il 1997) e alla crescita dell’uso degli antidepressivi, triplicato tra il 1988 e il
2000, con un incremento di sei volte della relativa spesa».
Non a caso si continua a parlare di epidemia (il comunicato stampa di un’industria
produttrice di un nuovo antidepressivo, appena arrivato in redazione, parla di
«patologia negata» e di «zone d’ombra per quanto riguarda l’incidenza nella
popolazione»), quando le indagini epidemiologiche dicono che la diffusione della
depressione maggiore è più o meno costante. Allargando sempre più il potenziale
pubblico dei bisognosi di antidepressivi, si arriva alla conseguenza evidenziata negli
ultimi studi: si fa sempre più ristretta la differenza di efficacia tra farmaci e placebo.
Dice Maj: «Gli antidepressivi sono tanto più efficaci quanto più la malattia è grave. In
genere non hanno effetto sulla demoralizzazione e ne hanno uno modesto sulla
depressione lieve».
A creare un’idea semplificata di che cosa sia la depressione non sono state solo le
difficoltà diagnostiche o altre questioni di natura tecnica. Le aziende produttrici di
antidepressivi hanno perseguito una strategia per allargare sempre più il mercato
delle molecole che uscivano dai loro laboratori, presentandole quasi come pillole
miracolose con scarsi effetti collaterali. E in buona misura ci sono riuscite.
Fra interessi dell’industria e medicina accademica si è formata, accusavava già anni fa
Giovanni Fava, psichiatra e professore di psicologia clinica all’Università di Bologna,
«un’insana alleanza» che ha osteggiato la rappresentazione fedele dei dati; ha favorito
convegni e simposi tenuti allo scopo di convincere i medici a prescrivere; ha avuto i
suoi esperti nelle posizioni chiave in riviste mediche e associazioni scientifiche; ha
messo in disparte chi non condivideva la visione prevalente. Gli antidepressivi che
l’industria doveva vendere sono stati prescritti (e continuano a esserlo) come
trattamento preventivo, o come cura da proseguire a vita. Sebbene niente faccia
pensare che siano effettivamente utili, se non in casi limitati e definiti.
Lo strapotere della pillola ha oscurato per anni un’altra verità: la soluzione chimica,
anche se al momento può aiutare, alla lunga da sola non funziona. Gli stili di vita,
ritenuti cruciali nella cura di molte malattie croniche biologiche, come diabete o
ipertensione, curiosamente sono stati ignorati nel caso della depressione. Invece
contano, e molto.
«Spesso si pensa alla depressione come una malattia che piomba addosso come
l’influenza, ma non è così» afferma Fava. «Senza accorgersene, c’è chi vive in modo
troppo stressante: troppo lavoro, poco sonno, problemi in famiglia... Sul momento
non succede niente, alla lunga però può arrivare la depressione». «Ai pazienti faccio
un esempio: se lei è andato fuori strada, gli antidepressivi la possono riportare in
carreggiata, ma se continua a guidare come prima, fuori strada ci finisce di nuovo»
aggiunge Fava.
C’è da chiedersi cosa non vada nel modo di guidare, e provare a rimettere in moto le
forze di guarigione interne. Qui può entrare in gioco la terapia della parola, grande
assente dal dibattito negli ultimi anni, e che ricomincia a riguadagnare terreno,
sostenuta da nuove prove di efficacia, proprio ora che le pillole ne perdono.
«Secondo gli studi più importanti, la sua efficacia non è inferiore, e forse è superiore,
a quella dei farmaci, soprattutto nelle forme di gravità intermedia. Nel lungo termine
potenzia e consolida l’azione dei farmaci» valuta Angelo Picardi, psichiatra del Centro
di epidemiologia sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di
sanità.
La psicoterapia sembra avere un effetto preventivo sulle ricadute. Lo si è visto quando
si è avuta la pazienza di verificare che cosa succedeva ai depressi non dopo uno, due
o tre mesi dalla cura con i farmaci, ma dopo uno, due, tre anni.
Sembrano funzionare, sottoposte a verifica sperimentale, alcune forme di psicoterapia
breve, come quella cognitivo-comportamentale, quella interpersonale e poche altre. In
una ventina di sedute, il terapeuta lavora con il paziente per insegnargli in modo
concreto, con un diario o con esercizi specifici, a individuare gli stili di pensiero che
favoriscono l’umore nero, e ad adottarne di più positivi. C’è chi ci riesce per carattere
e chi tende a ruminare fissandosi sempre sul peggio.
Il gruppo di Fava ha introdotto il trattamento detto modello sequenziale: farmaci in
fase acuta, seguiti da psicoterapia cognitivo-comportamentale per consolidare il
miglioramento. Metodo adottato in vari paesi perché sostenuto da studi rigorosi. Il
ministro della Salute britannico ha stanziato 170 milioni di sterline per l’introduzione
nel servizio sanitario di psicoterapie cognitivo-comportamentali nella cura della
depressione e altri disturbi ansiosi. Il timore è quello dei costi. «Ma non è che l’uso dei
farmaci venga a costare al servizio sanitario meno di un programma di psicoterapia»
osserva Picardi. Da noi, dove le asl sono organizzate soprattutto per i pazienti
psicotici, i depressi trovano scarsa o nessuna assistenza: pochi posti in ospedale e
pochi ambulatori.
In conclusione, parlando di depressione si ricomincia da zero. «Alla luce delle relative
certezze che abbiamo, sarebbe ora di avvicinarci al problema con studi adeguati, che
diano indicazioni sull’approccio complessivo, farmacologico e non, da adottare»
propone Nicola Magrini, direttore del Centro per la valutazione dell’efficacia
dell’assistenza sanitaria.
«Non ha senso dire “si cura con i farmaci” o “si cura con la psicoterapia”, anzi non ha
neanche più senso parlare di psicoterapia, dal momento che esistono diverse tecniche,
con indicazioni differenti» dice Maj. «La scelta va fatta caso per caso in base alle
caratteristiche del quadro clinico, alle modalità della sua insorgenza, alla storia
precedente di malattia, alla risposta precedente alle cure, alla presenza dei vari fattori
predisponenti e precipitanti (familiarità, eventi precoci di perdita, separazione o
abuso, alcuni stili di funzionamento cognitivo), e inoltre tenendo conto della presenza
di altre malattie».
Tratto da: Panorama
Di: CHIARA PALMERINI
Ultima modifica di Admin il Gio Apr 24, 2008 9:32 pm - modificato 1 volta. (Motivazione : psicofarmaci ai bambini)
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